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> ![](/uploads/2010/02/Avatar4.jpg)
L'avatar è un'immagine scelta per rappresentare la propria utenza in comunità virtuali […]
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> La parola, […] nel gergo di internet si intende che una persona reale che scelga di mostrarsi agli altri, lo faccia attraverso una propria rappresentazione, un'incarnazione: un avatar appunto.
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“Tutto è passato adesso, fuori c’è il mondo reale e questo è il sogno”
Chi siamo noi?
Quello che gli altri vedono di noi?
Quello che noi pensiamo di essere?
Sono domande vecchie come il mondo – o almeno quanto l’uomo – che ancora oggi danno da pensare, così come nel 1995 portarono l’allora quarantenne James Cameron a scrivere una sceneggiatura di un’ottantina di pagine con dentro la storia di Jake Sully, di Pandora e dei Na’vi.
Intanto il vecchio millennio era agli sgoccioli, le PlayStation e Windows 95 andavano alla grande e Cameron – era il ‘97 – vinceva col suo Titanic– il film più redditizio della storia – una cosa come 11 Oscar.
Dopo l’erculea fatica di portare sul grande schermo la tragedia delle 1523 vittime del naufragio più famoso della storia, l’inventivo James si ritirò dal grande schermo, dedicando anima e corpo alla creazione delle tecnologie che avrebbero dato alla luce al suo nuovo capolavoro: Avatar.
“Tu sei come un bambino, fa rumore e non combina nulla”
2154, l’ex-marine paraplegico Jake Sully – lo stesso Sam Worthington di Terminator Salvation e del venturo Clash of Titans – viene chiamato a prendere il posto del fratello gemello Tom, ricercatore sul lontano pianeta di Pandora.
Lontano 44 anni luce dalla Terra, Pandora è un Eden di piante ed animali di ogni genere, ma la principale attività dell’uomo non è l’esplorazione, ma lo sfruttamento del pianeta, tramite l’estrazione del costosissimo Unobtanium, un superconduttore fondamentale per la tecnologia terrestre, ma introvabile sulla Terra.
Jake, pur non comprendendo appieno il proprio compito, si trova suo malgrado ad essere un ingranaggio dello spietato piano dell’RDA per lo sfruttamento di Pandora.
Abitata da pacifici nativi bluastri alti oltre 3 metri – i Na’vi –, Pandora presenta un’atmosfera tutt’altro che respirabile per l’uomo. Per questo motivo l’RDA da anni tenta di ottenere la collaborazione dei nativi local i tramite il progetto Avatar: grazie ad un incrocio genetico tra uomo e Na’vi ed a una tecnologia di connessione psichica, sono stati creati degli avatar utilizzabili dagli uomini per esplorare il pianeta ed interagire con i nativi.
Mutans mutandis – come amava dire la prof. di latino – Jake si trova ad affrontare – assieme agli spettatori – un mondo completamente nuovo, in cui l’alieno diventa umano e l’umano alieno, dove capire chi si è, piuttosto che chi si vuole essere è importante e dove ritrovare sé stessi vorrà dire perdersi.
A V A T A R
Che dire di un film che – a detta di molti, tra i quali faccio finta di annoverarmi anch’io – lascerà il segno e sarà metro di paragone per tutti i film dell’immediato futuro?
Si perché, oltre alla storia di Jake, dei Na’vi e di Pandora, Avatar è il primo colossal ad essere girato espressamente in 3D e tramite una tecnologia completamente nuova – chiamata Reality Camera System – che permette di catturare digitalmente la reale interpretazione degli attori che danno anima – e in questo caso anche corpo – ai personaggi digitali del grande schermo.
Del resto Cameron ci ha abituato all’epicità dei propri film, in cui la tecnologia è solo il mezzo, ma l’importante è sempre l’emozione, il messaggio che questa può veicolare – più o meno direttamente.
Certo, nulla di nuovo sotto il sole: a quanti la storia di Jake ha fatto venire in mente la sempreverde Pocahontas? Chi non ha gridato al “dejà-vu” all’assalto dei Na’vi armati di arco e frecce contro la corazzata flotta umana? Ed il collegamento “alla Matrix” dove lo mettiamo?
Potrei andare avanti per altri 2000 caratteri elencando le somiglianze di Avatar con altri film del genere, ma la pellicola non è solo questo, questa è la superficie, il primo e più frivolo degli strati.
Il film è molto di più di un’accozzaglia di citazioni, cliché e scopiazzature, anzi,utilizzando quegli stereotipi della fantascienza “classica”, Cameron porta sullo schermo in 162 minuti il vecchio ed il nuovo mondo, la tecnologia distruttrice e quella creatrice, la sfruttamento e la simbiosi, uno scontro tra specie diverse che in realtà sono uguali, differenti sul piano fisico ma affini su quello spirituale.
In un mondo dove nulla è quello che sembra e non si ha – o non si vuole avere – il tempo di osservarlo da altri punti di vista, è bene che esistano registi come Cameron e film come Avatar che, in maniera tanto impercettibile da sembrare subliminale, riescono ad instillare quel vuoto di risposte, che fanno nascere le giuste domande nel pubblico.
Chapeau, monsieur Cameron!