Il Kirghizistan, uno stato indipendente dell’Asia Centrale sorto nel 1991 dopo il crollo dell’unione Sovietica, è sconvolto da feroci scontri etnici tra la maggioranza della popolazione, di etnia Chirghisa, e la minoranza uzbeka, situata per lo più nel sud del Paese.
Secondo fonti della Croce Rossa i morti sarebbero già centinaia ma il numero delle vittime potrebbe lievitare a causa dei corpi senza vita non ancora identificati o scoperti.
Assieme agli scontri e alle vittime si assiste ad un costante flusso di profughi verso i confini meridionali dello Stato asiatico, tutte persone in fuga dalle violenze, dalle fosse comuni e dalla fame. Secondo stime dell’UNHCR (l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati) sarebbero già 75.000 i rifugiati in Uzbekistan, mentre altri 200.000 uzbeki premerebbero ai suoi confini, ora chiusi.
Le violenze sono cominciate la notte dello scorso 10 giugno nella città di Osh ed ora si teme che si possano estendere in tutto il paese o al di fuori dei confini nazionali. Il governo intanto chiede la consegna dell’ex presidente Kurbanbek Bakiev e di suo figlio Maksim, accusati di avere finanziato e fomentato la tragedia in atto nel paese. Il primo tuttavia si è rifugiato in Bielorussia (e la stessa ne nega l’estradizione), il secondo invece è in stato di detenzione in Gran Bretagna dove è stato fermato su ordine dell’Interpol.
L’attenzione è ora puntata, oltre che sul dramma umanitario in atto, sulle possibili ripercussioni di queste violenze negli stati vicini e in tutta l’area circostante. Una zona, quelle delle repubbliche nate dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, già destabilizzata da guerre, conflitti, scontri militari e pulizia etnica. Un’area già instabile che ora rischia definitivamente di esplodere.