D J A N G O, la D è muta
Film-tributo di Quentin Tarantino agli spaghetti-western che tanto hanno caratterizzato la carriera dello sceneggiatore-regista, Django Unchained affonda le proprie radici agli inizi dell’800, sud-est americano, patria di abusi e schiavitù, un business che fa di carne umana e denaro un circolo che solo la guerra saprà spezzare.
Durante una fredda notte di luna piena il Dr. King Schultz, ex-dentista ora bounty hunter, compra Django, uno schiavo delle piantagioni. Da quel momento i due costituiscono un inarrestabile duo di giustizieri prezzolati: loro ripuliscono il paese da assassini e fuorilegge e lo Stato rimpingua i loro portafogli. Carne in cambio di denaro.
Ma Django ha una questione in sospeso: lui e la moglie Broomhilde, tentata la fuga, vennero catturati e separati, perdendo l’uno le tracce dell’altro. Da quel momento non è passato giorno in cui Django non abbia pensato ad un modo per ritrovare e liberare l’amata. “Broomhilde hai detto?”, esclama Schultz quando sente Django raccontare la propria storia, “Come tedesco sono tenuto ad aiutarti nel portare a termine la tua missione!”, l’entusiasmato dottore racconta a Django il mito di Sigfrido, leggendario eroe popolare tedesco che scalando montagne, conquistando castelli e uccidendo draghi, libera infine l’adorata Broomhilde.
Scoperto il nuovo padrone di Broomhilde, i due escogitano un piano (in)fallibile che, come ogni Tarantino che si rispetti, sarà foriero di sangue e pallottole.
La pistola più veloce dell’Est
Jamie Foxx è perfetto nel ruolo del protagonista, portando sullo schermo tutta la fisicità di un uomo sfruttato per i propri muscoli, non colto ma giusto, talmente pieno di dignità da poter indossare un ridicolo costumino da valletto azzurro senza fare una piega. Foxx si dimostra all’altezza della prova, riuscendo tanto nelle parti drammatiche quanto – e soprattutto – in quelle comico-grottesche, un marchio di fabbrica del regista italo-cherokee che, per la prima volta, dedica un’intera pellicola ad un solo personaggio, spiattellando la “scomoda verità” della schiavitù americana in tutto il suo disumanizzante orrore. In Django Tarantino da libero sfogo al suo viscerale amore per gli spaghetti-western – tanto da includere Franco Nero, il Django “originale” in un cammeo – e questa volta con una vitalità mai vista nelle precedenti pellicole.
Al fianco di Foxx la Magistrale – la maiuscola è d’obbligo – interpretazione di Christoph Waltz, l’attore mitteleuropeo è perfetto nel dare corpo e – soprattutto – anima al Dr. King Schultz, un bounty hunter cinico e calcolatore che non si fa scrupoli ad uccidere un ricercato davanti al figlio, ma che sa commuoversi davanti alla storia di Django e che non riesce a sopportare torture e ingiustizie della schiavitù.
Ai due protagonisti si affianca la perfetta nemesi, la coppia portata sullo schermo da Leonardo diCaprio e Samuel L. Jackson. Il primo è Calvin Candie, schiavista ed attuale padrone di Broomhilde; borioso e arrogante, la sua passione per le lotte tra mandingo – schiavi lottatori fino alla morte – verrà sfruttata dai protagonisti per imbastire l’ennesima sciarada à-la-Tarantino che, come consuetudine, porterà al Mexican stand-off di rito. Jackson completa la simmetria tra buoni e cattivi dando corpo a Stephen, il deviato schiavo-maggiordomo di Candie, tanto attaccato al proprio ruolo di “padrone di casa” da diventare il vero ostacolo tra Broomhilde e Django.
Se gli amanti di Tarantino troveranno pane per i propri denti, gli spettatori più esigenti si troveranno a storcere il naso in più di un’occasione, puntando il dito contro coincidenze, abilità e personaggi usciti dal nulla e portati sullo schermo per pura “exploitation” del regista, in puro stile B-movie.
Perché Tarantino è Tarantino e tutti gli altri sono dei grandissimi figli di BOOOM!
Alla prossima pellicola.