A distanza di 20 anni, Arrival è, per qualità e critica, l’erede di Contact, cult-movie del 1997 sul “primo contatto” tra alieni e umani.
Arrival
Come nell’illustre predecessore di Zemekis, anche in Arrival la chiave di volta della pellicola è la sua protagonista: una donna forte e sensibile capace di scardinare le convenzioni e stabilire un rapporto con esseri di altri mondi.
In Contact, il ruolo valse a Jodie Foster una nomination agli Oscar. Cosa che non è impensabile succeda per la performance di Amy Adams nei panni di Louise, linguista di fama mondiale reclutata dal governo USA per comunicare coi visitatori extra-terresti in Arrival.
Nella pellicola di Denis Villeneuve — tratta da un racconto breve di Ted Chiang intitolato “Storia della Tua Vita” — gli alieni arrivano sulla Terra in una dozzina di giganteschi artefatti fluttuanti a mezz’aria e sparsi per il mondo. Per mettersi in contatto con i viaggiatori dallo spazio, i militari portano Luise e il fisico Ian Donnelly (Jeremy Renner) in Montana, luogo in cui si trova il monolite nel Nord America. Qui Lousie ha il primo, incredibile incontro con una razza capace di modificare la gravità a piacimento e il cui modo di percepire tempo e spazio sfida gli stereotipi che hanno da sempre retto la realtà vista dagli occhi della razza umana.
Pur sforzandosi di instaurare una comunicazione verbale, Lousie scopre che umani e alieni differiscono per un ulteriore elemento: per questi ultimi il linguaggio verbale e quello scritto vivono su due piani diversi, il primo viene usato per esprimere emozioni mentre il secondo convoglia pensiero e ragionamento. Per questo, Lousie capisce di dover decriptare la strana grammatica fatta di simboli circolari che gli alieni usano per scrivere — il film, tra le altre cose, fa riflettere su una certa, affascinante teoria tra linguaggio e mente. Un tema che, ammetto, ha saputo fare breccia nel mio cuore da linguista.
Da questo “eureka” in poi, e parallelo ai progressi che Lousie fa nella comprensione della scrittura aliena, il film recide gradualmente i propri legami con la realtà, entrando in un mondo onirico e suggestivo fatto di flashback, sogni premonitori e incubi.
Che Louise, comprendendo la lingua degli alieni, stia perdendo la propria ragione?
In questo, Villeneuve dimostra una grande maestria nel calare lo spettatore nella pellicola, al fianco dei propri protagonisti. I dettagli della trama, rivelati col contagocce e con una tempistica impeccabile, precedono se non coincidono con l’esatto momento in cui, spiegato un evento, fornito un nuovo indizio, pronunciata una certa frase, lo spettatore compone un nuovo pezzo del puzzle, magari incastrando quel pezzetto che, visto e conservato nel fondo della propria psiche, se ne stava lì, senza chiara dimora. A chiudere il fine rompicapo assemblato da Villeneuve, ci penserà il “WOW” finale che non mancherà di lasciare un sano sapore amarognolo in bocca.
Non rivelo intenzionalmente altri dettagli della trama proprio per non rovinare il certosino lavoro fatto da sceneggiatori e regista. Come scrivevo nell’incipit, Villeneuve con Arrival raggiunge supera quello squisito equilibrio tra epica e intimità che Zemekis ottenne con Contact. Una piccola gemma con tutte le carte in regola per diventare un classico senza tempo della fantascienza.