In questi giorni in Tibet monta la protesta contro il governo Cinese. Tutto è cominciato lunedì 10 marzo quando i monaci Tibetani di 2 monasteri della capitale Lhasa hanno sfilato per le vie della città per ricordare la rivolta del 1959 (non-violenta) contro l’occupazione del paese da parte della Cina. In seguito la ribellione si sarebbe sviluppata nelle provincie vicine, anche a Ganden e nella città di Xiahe. Si è detto di monasteri circondati dalle forze di polizia e dall’esercito, perquisizioni casa per casa, pattugliamenti da parte dei militari delle strade e di monaci in sciopero della fame o che avrebbero tentato il suicidio tagliandosi le vene. Intanto oggi alle 17 italiane scade l’ultimatum dato ai ribelli dalle forze cinesi per cessare le violenze e consegnarsi (altrimenti si minacciano severe conseguenze). A causa del taglio di tutte le comunicazioni provenienti dalla regione del Tibet (mossa voluta dal governo cinese che inoltre avrebbe invitato le Organizzazioni Non Governative presenti sul territorio ad andarsene) le notizie sono frammentarie e confuse. Unica fonte di informazione lo stesso governo Cinese.
Questo rende difficile stabilire con esattezza il numero dei morti e dei feriti degli scontri di questi giorni. Il governo Tibetano in esilio parla di centinaia di vittime mentre le cifre ufficiali abbassano il numero a 13 (la maggioranza delle quali civili innocenti uccisi in modo barbaro dai ribelli secondo Pechino). Il Dalai Lama o Oceano di saggezza (massima autorità temporale del Tibet, nonché capo del governo in esilio) dall’India ha affermato che nel suo paese è in corso un vero e proprio genocidio culturale, ha chiesto che sulla vicenda si faccia luce tramite un’inchiesta internazionale ma si è detto comunque contrario al boicottaggio delle Olimpiadi. In questi giorni infatti molti hanno sostenuto e invocato il boicottaggio delle prossime olimpiadi mentre altri le hanno difese sulla base di una netta distinzione tra politica e sport. I fatti del Tibet hanno poi provocato molta indignazione e rabbia e davanti alle ambasciate Cinesi sparse in tutto il mondo si sono verificate manifestazioni di protesta (all’Aia i manifestanti hanno abbattuto parte delle recinzioni e hanno sostituito la bandiera Cinese con quella Tibetana). I governi del pianeta invece si sono espressi per lo più con cautela, chiedendo spiegazioni, dialogo e maggior moderazione nell’uso della forza da parte di Pechino.
Parte del Tibet viene invasa alla fine degli anni 40 (1949) dalla forze Cinesi le quali negli anni successivi conquistano con la forza l’intero territorio nazionale provocando nel 1959 la fuga del Dalai Lama e del suo governo. Da allora costoro sono rifugiati a Dharamsala, in India. Nel 1989 il capo spirituale della nazione Tibetana vince il premio nobel per la pace.
Non avendo dati certi è difficile dare un giudizio : da una parte e dall’altra forse si tende ad esagerare ma sicuramente il Tibet non è la patria dei diritti umani. Ed in questo senso dare le Olimpiadi ad uno Stato del genere, la Cina, dove si viola la dignità dell’uomo, dove vige la pena di morte significa arrendersi al mercato e alla potenza economica cinese, di cui il mondo sembra essere succube (gli Usa, visto che amano tanto ed esportano la democrazia nel mondo, dovrebbero accattare pure il paese asiatico).
Quello che sta avvenendo in questi giorni ricorda quanto successo mesi or sono in Myanmar, ex Birmania. Anche lì i monaci si ribellarono al regime, chiedendo la fine della dittatura militare. Da allora qualcosa è cambiato? Sembra proprio di no, la giunta militare è sempre al potere mentre nel paese sono state denunciate misteriose sparizioni e torture.
Una sconfitta per la democrazia e per la libertà che appare ora destinata a ripetersi.