3+2=?
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3+2=?

Sono ormai passati 8 anni dall’introduzione della cosiddetta “riforma universitaria del 3+2”, applicata dagli atenei italiani, in via sperimentale, a partire dal 2000 e che ha avuto come obbiettivo quello di rendere più standardizzati, brevi e flessibili i percorsi didattici dei vari di corsi e di avere un maggior numero di iscritti all’università.

Iniziamo dagli aspetti positivi. L’introduzione del “3+2” ha fatto registrare un sensibile aumento delle immatricolazioni mentre il numero di coloro che interrompono gli studi è altrettanto sensibilmente calato da quell’altissimo 60% di pochi anni fa.

La riforma, anche per effetto della riduzione della durata del percorso di studi, ha contribuito ad abbassare l’età media alla laurea. Fra i quasi 80mila laureati puri del 2007, l’età media alla laurea è di 24,5 anni. L’età media alla laurea è ancora più bassa per i laureati in Ingegneria e del gruppo geo-biologico (23,5 e 23,6 anni); l’età massima è raggiunta dai laureati del gruppo insegnamento e nelle professioni sanitarie (26,7 anni), dove un maggior numero coniuga lo studio con il lavoro a tempo pieno. La quota dei laureati in corso continua a riguardare quasi la metà dei laureati: il 44,7% si laurea in corso, un valore di cinque volte superiore al 9-10% che caratterizzava il complesso dei laureati prima della riforma.

L’80% dei giovani dopo la laurea triennale vuole proseguire gli studi e un 60% di questi va alla specialistica. Un 50% scarso lavora (un 16% fa entrambi), solo il 5% cerca lavoro senza trovarlo e quasi il 3% non lo ha ne’ lo cerca.

Altri numeri, stavolta meno positivi. Da quando la riforma dell’istruzione superiore è entrata in vigore, i corsi di laurea di primo livello sono diventati più di 3.000, con taluni nomi dei corsi stessi che fanno davvero rabbrividire e la cui utilità è più che discutibile

Venendo alla questione del legame tra Università e mondo del lavoro, c’è da dire che la distanza si è alleviata in maniera quasi impercettibile. Università e lavoro continuano ad essere due mondi quasi separati, che poco comunicano tra di loro. Troppo poche le ore dedicate a stage e tirocini, troppo poche le discipline in grado di fornire competenza tecniche agli studenti, poco flessibili rispetto alle esigenze del mondo del lavoro . Soprattutto alla triennale lo stage è visto come una perdita di tempo non tanto per mancanza di volontà dello studente ma perché fare uno stage molto spesso equivale a non riuscire a laurearsi in tempo.

Incredibile ma vero poi, avere una laurea “in tasca” non è sinonimo di avere maggiori possibilità di lavorare rispetto a chi possiede un titolo di studio più basso. Basta guardare le statistiche di Almalaurea, le quali dicono che a 5 anni dal conseguimento della laurea soltanto l’87% degli intervistati ha trovato un posto di lavoro e non necessariamente nel proprio campo.

Dal X Rapporto AlmaLaurea, che ha coinvolto oltre 92mila (di cui 70.656 pre-riforma) laureati di 45 università italiane, emerge una condizione occupazionale dei laureati stazionaria. Rispetto al 2007, quando tutti gli indicatori mostravano inequivocabilmente il segno meno, si osservano lievi segnali di ripresa. Ma solo limitatamente al primo ingresso nel mercato del lavoro. Segnali assenti o appena percettibili contraddistinguono il medio-lungo periodo.

Ad un anno dalla laurea lavorano 53 laureati su cento. A cinque anni dalla laurea il lavoro stabile si amplia fino a coinvolgere 70 laureati su cento. Ma resta consistente il lavoro precario: sia a un anno (48%) che a cinque anni dalla laurea (27%). Rimane preoccupante il divario tra Nord e Sud: 23 punti percentuali a un anno dalla laurea, 12 punti a cinque anni. Le retribuzioni, già modeste (1.040 euro mensili netti per un neolaureato, 1.342 dopo cinque anni), continuano a perdere potere d’acquisto. Fatto 100 il guadagno del laureato del 2001, il laureato intervistato nel 2007 guadagna 92,9: ancora meno dell’anno precedente (94,7).

Il sistema universitario italiano ha licenziato un numero di laureati quasi doppio rispetto a quelli prodotti alla vigilia della riforma universitaria: oltre 300mila nel 2006 rispetto a poco più di 152mila nel 1999. Ma la crescita, ancora insufficiente per recuperare il ritardo a livello europeo, sembra già esaurita. Il numero dei laureati è stimato in calo del 12% tra il 2005 e il 2006, ed è destinato a ridursi ulteriormente per il calo del 9% degli immatricolati negli ultimi quattro anni. All’anagrafe si è perso il 42% dei diciannovenni dal 1984 al 2007.

Un’altra conseguenza della riforma del 3+2 è stata la crisi dei programmi di mobilità studentesca (ERASMUS per intenderci). Il numero degli studenti universitari che sceglie di passare un periodo di studio all’estero è ormai in continua diminuzione.Secondo il rapporto 2005 del consorzio bolognese che monitora 140 mila studenti di 35 atenei italiani, la percentuale di neo-dottori italiani che nel 2004 ha avuto un’esperienza di studi all’estero è stata pari all’11,3 per cento del totale contro il 16,5 % di qualche anno prima.

Trarre delle conclusioni non è facile ma ci proverò.

A mio avviso la riforma è stata giusta perché occorreva modernizzare il sistema universitario e renderlo il più simile ai modelli europei. Come ogni riforma ha un senso se però vengono corretti tutti quei problemi che l’esperienza evidenzia.

Innanzitutto bisogna avvicinare il mondo del lavoro all’Università ma non solo a parole ma con fatti veri per esempio attribuendo allo stage un numero di crediti consistente (almeno 15) togliendo magari quei corsi facoltativi/opzionali che esistono in tutte le università più per dare cattedre che altro e poi bisogna cercare di eliminare il più possibile quegli intoppi che non fanno altro che rallentare lo studente; in primis la tesi della triennale la cui valenza non riesco proprio a spiegarmela.

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