Il Grande Gatsby
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Il Grande Gatsby

Scrittore di nascita, speculatore per convenienza, il giovane Nick Carraway fa la conoscenza del “Grande” Gatsby nella frenetica New York dei ruggenti ‘20. E’ il 1925 e Nick, sul lettino del terapista, racconta la propria esperienza nella grande Mela. Soldi, alcool, sesso e Gatsby. Gatsby. Che ossessione.

Il Grande Gatsby

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Luhrmann lo abbiamo conosciuto con Romeo + Giulietta e col magnifico Moulin Rouge. Ora ci riprova con “Il Grande Gatsby” di un altro Grande della letteratura: Scott Fitzgerald.

Ritroviamo un Leonardo diCaprio in splendida forma nella parte di Gatsby. Magnetico, misterioso e melodrammatico, riesce da solo a reggere buona parte del peso della produzione. Peccato per un comprimario – Tobey Maguire – che confrontato col diCaprio proprio non regge. Ok, Leo è Leo, ma se vuole far strada, il ragazzotto deve togliersi quanto prima quell’espressione da pesce lesso che, al tempo, rappresentò un giustificato motivo per la maschera in Spider-Man.

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Il film spinge sul pedale dell’eccesso, abbondando in tutto. La fotografia è talmente satura da sfiorare l’iper-realistico, così come lo sono le carnevalesche feste a base di rap – si, rap, negli anni venti, so che suona strano, ma alla fine ci sta – ‘n blues tenute da Gatsby nella sua sovradimensionata magione.

Ed è proprio questo l’appellativo col quale apostrofare la produzione di Luhrmann. Un turbinio di immaginifiche scene, corredate da un spettacoloso impianto sonoro e fotografico, mirate più al cuore dello spettatore che al suo cervello.

Quello che manca alla produzione, seriamente, è un tessuto connettivo di fondo. Luhrmann sa come impressionare lo spettatore. Ora facendolo ridere, ora incantandolo ed ammaliandolo. Sempre con la propria vena “decadente” – come buona parte dei personaggi del film. Purtroppo al “the end” ci si ritrova a fare il bilancio totale e ci si accorge che il film lo si poteva raccontare tagliando mezz’ora buona di scene auto-referenziali e giustificando quanto portato sullo schermo.

Ok, i ‘20 erano gli anni della dissolutezza, ma anche ammettendo che il regista l’abbia fatto apposta, il sentimento trasmesso dal film è quello di una casualità generale che pervade tutti i personaggi. I coprotagonisti di questa tragedia corale mancano di un vero stimolo in quello che fanno, agendo più a causa della penna di Fitzgerald che per volontà propria, finiscono per suonare farseschi e perdono l’attaccamento del pubblico.

Peccato, perché Gatsby intrattiene eccome. Cin!