Direttamente dagli anni ‘90 arriva la killer application per la realtà aumentata.
Gotta Catch’em All!
Storia recente a 8 bit. Satoshi Tajiri e Nintendo pubblicano nel 1996 un gioco per Game Boy — l’allora status symbol della ragazzinitudine tutta — in cui il giocatore interpretava un allenatore di creaturine immaginarie, chiamate “Pokémon” (Pocket Monsters, mostriciattoli insomma). Scopo dell’allenatore era collezionare più bestiole possibili e farle crescere, combattendo contro altri allenatori.
Da game a cartoon il passo fu breve e i bimbi degli anni 2000 non poterono fare a meno di essere travolti dall’ondata di ulteriori giochi (video e non), gadget, fumetti e film.
Fast forward ad oggi, Nintendo aggredisce il mercato delle app con Pokémon Go, un applicazione per iOS e Android che, sfruttando telecamera, GPS e connessione a internet dei cellulari, proietta i propri utenti nel mondo “al di là dello specchio”. Una realtà aumentata in cui, inquadrando ad esempio un’aiuola del parco, potrete scoprire un piccolo Pikachu da rincorrere, catturare ed allenare.
Utenti catturati
Benché la premessa non faccia gridare al miracolo tecnologico (chi ha urlato Ingress?), Pokémon Go ha conquistato a mani basse il cuore dei bimbi di tutto il mondo ma soprattutto ha mandato in palla il cervello di quei giovani (oggi meno giovani) che 15 anni prima erano stati svezzati a PanDiStelle™ e cartoni animati.
Sul mercato da una settimana e disponibile solo in Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda, l’app ha registrato un record inaspettato di download, lanciando alle stelle i titoli finanziari di e collegati a Nintendo. L’inaspettata affluenza ha perfino ritardato il rilascio dell’applicazione in Asia ed Europa, causa ridimensionamento dei server a fronte dei futuri collegamenti previsti.
Intanto la mania impazza e le citazioni dell’applicazione fanno capolino ai quattro angoli del web, dalle strisce di XKCD agli esperti di sicurezza — l’app permette il login tramite il proprio account Google ma, una volta autorizzata, avrebbe accesso a mail, contatti, documenti e foto. Si arriva così ai servizi di Uber che promettono di scarrozzare gli allenatori in erba mentre loro si dedicano al bracconaggio digitale, finendo con leggende (metropolitane) più o meno veritiere. Si racconta di giocatori che usano il proprio drone per un aiuto dall’alto alla caccia delle bestiole, altri che mettono in pericolo i passanti scandagliando la strada alla guida delle proprie auto arrivando fino ad un ragazzo che ha trovato un morto mentre seguiva le tracce dei mostriciattoli lungo le rive di un torrente della propria città.
La speranza, come sempre in questi casi, è che i giocatori, prima di perdersi all’inseguimento degli agognati esserini digitali, abbiano controllato che il collegamento al cervello funzioni a dovere. I futuri vincitori di Darwin Awards sono avvisati.