Alla famiglia allargata degli Avengers mancava un miliardario borioso col pizzetto… aspetta ma non c’era già Tony Stark? Ah, già, quest’altro apre portali interdimensionali.
Doctor Strange
Stan Lee ha sempre avuto un debole per gli eroi boriosi e strafottenti (esempi a caso: Tony Stark, Thor, Reed Richards, e perfino il Professor X in qualche misura). Del resto, l’alto tenore di Stronzio fa da perfetto contraltare alle storie dove l’eroe deve fare i conti con le nefaste conseguenze dalla propria arroganza. Alla fine l’eroe si redime. Ma magari conserviamo una punta di boria, che se no come facciamo a fare i sequel? (Chi ha urlato forte Ultron?)
Tutto questo popò di cappello introduttivo per dire che Doctor Strange, ultimo film e omonimo eroe della famiglia cinematografica Marvel, è il degno erede del miglior Iron Man. Il dottore è un chirurgo di fama internazionale, tanto acuto quanto arrogante ed egoista, che deve dire addio ai propri sogni di fama a causa di un incidente che rovina irreparabilmente le proprie mani. Strange dilapida la propria fortuna alla vana ricerca di una cura della medicina tradizionale finché, per un’opportuna serie di eventi, finisce in Nepal, impara che la Scienza è solo parte dell’equazione ed apprende le salvifiche vie della forza magia. A guidare l’apprendista stregone ci saranno l’abile Mordo ma soprattutto l’Antico, lo Stregone Supremo che arruolerà Strange contro il Male (maiuscola) rappresentato dal temibile Dormammu — il nome non suona particolarmente minaccioso in italiano, ma soprassedete, please.
L’occhio di Bergamotto
Scrivevo nell’incipit che buona parte degli eroi Marvel sono boriosi. Il Dottor Stephen Strange è l’arroganza fatta Benedict Sherlock-Turing-Cumberbatch (un tratto distintivo delle interpretazioni dell’attorone inglese). Strange non perde occasione per auto-glorificarsi e, se possibile, sminuire al contempo gli astanti. Il momento della redenzione arriva presto, ma il processo non sembra cambiare il carattere del personaggio. Certo, l’espressione alienante (e da alieno) di Cumberbatch non aiuta a calarlo nelle scene — apparentemente – più toccanti, ma l’impressione generale è che il Doc sia lì più per caso che per volontà.
Per fortuna, ad aiutare Benedetto nel compito c’è Tilda Swinton in uno dei ruoli più — volutamente — androgini da lei mai interpretati: quello dello Stregone Supremo/monaco tibetan-celtico. Un ruolo contestato per il presunto whitewashing — la tradizione hollywoodiana di scegliere interpreti caucasici per ruoli tipici di altre etnie. Parere personale, la Swinton calza il ruolo come un guanto, dando vita ad un personaggio scevro da una determinata caratterizzazione etnica o sessuale e, proprio per questo, perfetto per rappresentare un essere come lo Stregone Supremo.
Tornando per direttissima al film, la pellicola segue — anche troppo pedissequamente — i canoni del film delle origini del super-eroe. Qui c’è il “più” dato dalla presenza dell’universo magico Marvel, appena accennato nei film di Thor e dai poteri di Scarlet Witch negli Avengers. In termini immaginifici, pensate ad un Inception sotto psichedelici. Una grande epicità data da temi ed ambientazioni che purtroppo — croce e delizia di alcune pellicole Marvel — viene rotta dalle battutine da bar tirate a caso nei momenti più concitati. Certo, il dottore chiacchierone (soprattutto nelle scene di lotta) fa ridere il pubblico dai 10 anni in su, ma che cavolo, stiamo parlando del futuro Stregone Supremo mica di un Harry Potter qualsiasi (quella scena della cappa!).
Ovviamente la pellicola non deluderà il grande pubblico, accolto da 2 ore di intrattenimento in puro stile Marvel. Peccato per una certa mancanza di coraggio da parte di regia e produzione, buttatesi sul sicuro del canone per lasciare indietro tanto di un universo strano (nomen omen) e cinematograficamente inesplorato come quello del Dr. Strange. Sperando in un po’ più di ardore nei prossimi sequel, aspettiamo di vedere il Dottore alle prese con altre divinità (non mancate le due scene post e post-post credits).