Thor, in Space! (cit.)
Ragnarok
Thor, figlio di Odino, dio del tuono. Sulle bande disegnate (Marvel) le componenti principali delle storie del dio del lampo norreno sono la gravità e l’epicità. Battaglie leggendarie, intrighi millenari e vere e proprie epopee, presi a piene mani dalla mitologia degli Æsir, raccontati da una narrazione, sì disegnata, ma degna dei migliori rapsodi d’altri tempi.
Purtroppo (ma neanche troppo), ciò che funziona bene sul fumetto non sempre si traduce fedelmente su un altro medium. Così, benché il primo film del 2011 abbia provato ad ammantare il personaggio di un aura shakespeariana — obiettivo dichiarato dallo stesso regista Kenneth Branagh —, il Thor di Hemsworth ha sempre faticato a ricoprire il ruolo serioso confezionatogli — al contrario del Loki di Hiddleston, capace di alternare con una rapidità disarmante la gravità di un irriducibile villain ad alcune delle gag più esilaranti dell’intero franchise Marvel. A conferma, la prova del non-proprio-convincente secondo film.
Così, invece che preparare un altro piatto insipido della tradizione (mitologica) scandinava, alla Marvel (che si legge Disney) hanno pensato di lasciar perdere ogni mira seriosa per spingere a tavoletta sul pedale della commedia — oh, se funziona per Guardiani della Galassia —, tanto da caratterizzare una buona parte di Ragnarok come un buddy movie non dissimile (ma più costoso) alle pellicole dei nostrani Bud Spencer e Terrence Hill.
Il film parte da Asgard e dal Ragnarok, l’apocalisse norrena in cui le divinità asgardiane combattono le forze del Male (maiuscola) impegnate nel eliminare la terra degli dei dalla faccia dell’universo. In Ragnarok (il film), il male è rappresentato da Hela (Cate Blanchett), primogenita di Odino, dea della morte e a lungo esiliata dal padre degli dei per paura della sete di potere della figlia. A causa di Hela, Thor e Loki si ritroveranno sul pianeta-discarica di Sakaar, dove il Gran Maestro (interpretato da Jeff Goldblum) obbliga Thor a diventare uno dei propri gladiatori, in un galattico riferimento ai panem et circenses di romana tradizione. Qui Terrence (Thor) incontra Bud (Hulk), formando il duo che porterà allo scoppiettante — letteralmente — finale del film.
Come scritto sopra, Ragnarok non spende troppi minuti per prendersi sul serio. Sì, c’è Hopkins e si prova lo stesso a infilare qua e là qualche accenno al fatto che l’apocalisse è imminente, ricordando e dando un po’ di spazio alle perdite di questo e dei precedenti film. A riprova, l’uso appropriato, ma a questo punto poco giustificato, della fantastica “Immigrant Song” dei Led Zeppelin a corredo delle scene dal carattere più epico. Tentativi seriosi a parte, ciò che risalta da quest’ultima pellicola del Mitico Thor è la presa di coscienza del franchise di essere un film su un tizio che porta un elmo con le alette à la Asterix e che vola agitando un martellone. Tale realizzazione sembra concordare con la scelta di mettere dietro la cinepresa un veterano della commedia come Taika Waititi.
Le due e rotte ore di Thor Ragnarok passano velocemente a suon di cazzotti e battute (più o meno riuscite), riuscendo nel compito non banale di intrattenere il pubblico. L’unico amaro che rimane, uscendo dalla sala di proiezione, è per l’ennesima occasione mancata di lasciare un ricordo sostanzioso nelle menti degli spettatori.